Monte Tezio: I Cenni Storici
In quel di Migiana...
Le Chiese Gemelle
Il racconto di una curiosa scoperta - Di Francesco Brozzetti
Girando in auto per stradine, stradette, tratturi ed altro ancora, ho visto un fantastico casale abbandonato… Non ho resistito e fermatomi lì vicino, ho fatto qualche scatto… Comunque guardando la sua facciata mi viene il sospetto di averlo già visto, ma non è possibile, non sono mai stato in quel luogo. Poi ho capito, il suo fronte è praticamente identico a quello di una casa abbandonata tra Maestrello e Colle Umberto I, dove, anticamente, anzi più precisamente nel ‘200, era stata costruita una chiesa, San Giovanni Vecchio, abbandonata poi a causa delle continue inondazioni del torrente Caina. Il luogo appena trovato è chiamato Podere San Pietro, ma a me interessa esclusivamente la piccola chiesa, annessa alla struttura, dedicata appunto a San Pietro. Bella scoperta! Due chiese praticamente identiche, entrambe abbandonate e ridotte a casolari fatiscenti, quasi simmetricamente ai lati opposti del monte! Credo proprio di aver trovato lo spunto per una nuova serie di foto, in un angolo nascosto del nostro favoloso territorio! A questo punto è doveroso effettuare qualche piccola precisazione storica.
Il piccolo borgo di Migiana, costituìtosi intorno al XII secolo, si trova alle falde di Monte Tezio, lungo la strada che un tempo conduceva verso la valle del Tevere. Verso la fine del 1200 si presuppone che venne costruita la fonte pubblica su incarico dei magistrati perugini e la chiesa parrocchiale, dedicata a San Pietro, risale anch’essa alla prima metà del XII secolo, essendo anche citata in un documento del 1163 nel quale Federico Barbarossa ne conferma il possesso al monastero perugino di San Pietro.
L’attuale centro abitato, in lenta ma progressiva ristrutturazione, si è sviluppato attorno alla chiesa, che dava il nome ad uno dei due insediamenti in cui si distingueva Migiana nel Trecento, ovvero Migiana Superioris Montis Tezzi, mentre Migiana S. Petri Montis Tezzi, pur rimanendo strutturalmente inferione, era stata costruita intorno all’omonima chiesa. Oggi il corpo ampliato della chiesa “Superiore” e della canonica è divenuto una casa d’accoglienza.
Migiana San Petri Montis Tezzi. Se dal borgo di Migiana si lascia scorrere lo sguardo verso la valle del Tevere, prendendo come riferimento il castello di San Giuliano, in basso, si intravvede un caseggiato, imponente, ma completamente abbandonato ed in rovina. Per raggiungerlo non c’è molta strada da fare, solo un tratto di strada sterrata, che però si snoda all’interno di una azienda faunistico-venatoria ed è d’obbligo chiedere l’autorizzazione ad accedervi.
Raggiunto il casale si nota subito che la facciata non è quella di una semplice casa di campagna, ma è il fronte di una chiesa, una semplice chiesa dalle mura in pietra ma con l’ingresso ad arco acuto e l’interno con un soffitto a volta anche se completamente spoglio di ogni arredo. Ormai non è altro che un rudere ridotto a testimonianza della precedente vocazione religioso-agricola di questa porzione di territorio.
Chiesa di San Giovanni Vecchio. Le prime notizie relative alla chiesa di San Giovanni risalgono ai primi due secoli del primo millennio, quando l’imperatore Arrigo IV, prima, e Federico I, poi, riconobbero ufficialmente la chiesa.
Verso la metà del XV secolo, nel catasto risulta che i beni parrocchiali erano notevolmente diminuiti e ridotti in pessimo stato, ed infine, nel 1776 il parroco don Francesco Pompili ottenne dalla S. Congregazione del Concilio, l’autorizzazione di costruire una nuova chiesa sulla vicina collina (San Giovanni del Prugneto). La vecchia struttura, collocata nel pianoro (S. Giovanni Vecchio), ormai malandata, sia dai secoli che dalle piene improvvise
ed impetuose del torrente Caina che scorre lì vicino, successivamente venne parzialmente demolita e sui suoi resti fu eretta una casa colonica
di discrete dimensioni, dove abitarono alcuni coloni fino agli anni ‘50 del secolo scorso.
Un'importante testimonianza...
Dai ricordi di Tullio Fabbri
Conversazioni per non dimenticare - Di Paolo Passerini
L’incontro è del tutto casuale, nello spiazzo antistante la chiesa di Pantano. Il personaggio appare subito interessante con il suo aspetto di solida antica quercia e con un prezioso bagaglio di ricordi accumulati in tanti anni vissuti in questo territorio, testimone di avvenimenti importanti e di episodi di vita quotidiana che la storia raramente registra.
La conversazione ha inizio in modo spontaneo, favorita dalla schietta affabilità dell’interlocutore e dalla generosa disponibilità a raccontare ciò che ricorda. Il suo nome è Tullio Fabbri e risiede a Pantano, dove è nato più di ottanta anni fa e dove ha sempre vissuto. Lo stimolo è grande e non sappiamo resistere alla tentazione di chiedergli una vera e propria intervista, alla quale egli acconsente di buon grado. Lo scopo è quello di non disperdere una delle ormai rare testimonianze che ci consentono di mantenere uno stretto legame con il nostro passato. Ecco i risultati:
Il primo ricordo riguarda la croce che fino a qualche decina di anni fa era presente in cima alla parete rocciosa denominata “lo scoglio del Pantano” sulle pendici nord del Monte Tezio. Tullio inizia il suo racconto: “Era stata collocata 150 – 160 anni fà in memoria di un uomo di nome Anselmo che arrampicatosi sugli scogli per raccogliere negli anfratti il miele depositato dalle api selvatiche, scivolò e cadendo perse la vita. Negli anni trenta, essendosi deteriorata, la croce fu sostituita da mio zio Guerriero e li rimase fino agli anni cinquanta quando è scomparsa definitivamente”.
I ricordi si accavallano ed ecco affiorarne un altro di grande interesse: “In cima allo scoglio del Pantano c’è un piccolo pianoro, una specie di terrazzo chiamato Piano dei corvi. Questi rapaci per alcuni anni furono catturati per essere immessi nella grande voliera allora esistente ai giardini del Pincetto di Perugia, uno dei luoghi all’epoca più frequentati dai perugini. Lo zio Guerriero, sorretto da altri uomini, si calava con delle corde per una ventina di metri lungo la parete rocciosa, fino a raggiungere le piccole cavità dove i corvi nidificavano, prelevando i piccoli ormai prossimi al volo. Questi venivano poi consegnati alle guardie venatorie per la successiva destinazione”.
Non può mancare il ricordo della festa dell’Ascensione che per anni ha richiamato sulla cima del Monte Tezio tantissima gente da tutti i versanti della montagna: “La ricorrenza religiosa si svolgeva al mattino a Pieve Petroia dove il Pievano dell’epoca, Don Oreste, celebrava la Messa; dopo la processione si saliva sul monte. Per anni, da ragazzo, io, Fausto, Ginetto, suo fratello,Quintilio, Boila del piano e altri amici, siamo andati su in cima per partecipare alla festa che si svolgeva sui prati fra il Monte Tezio e il Tezino. Alcuni portavano gli strumenti per suonare, perché si ballava anche; da La Bruna veniva Staccini, che aveva un piccolo negozio di generi alimentari e portava bibite e roba da mangiare. Naturalmente tutto veniva trasportato con i muli perché non esistevano altri mezzi in grado di raggiungere quei posti. Si radunava tanta gente, da Migiana, La Bruna, Antognolla, oltre che da Pantano, Maestrello, Colle Umberto ecc. Si trascorreva la giornata in allegria, qualche volta anche litigando. Poi questa tradizione si è persa perché noi, i giovani di allora, ci siamo invecchiati e le generazioni successive hanno avuto altri interessi ed altre attrattive che non una festa in cima al monte da raggiungere a piedi…. L’ultima volta che mi ricordo è stata nel 1946 o 47. In quella occasione un gruppo di amici di Pantano: io, mio fratello, Peppino, Gottardo, Benito, Milio Giovagnoni, salimmo in cima al monte una settimana prima dell’Ascensione con la scorta di viveri e bevande e ci trattenemmo fino al giorno della festa. Non avevamo le tende e per la notte ci arrangiavamo con delle coperte dormendo sotto le stelle. Ricordo che l’unico inconveniente erano i tanti fastidiosissimi ragni che di notte ci facevano visita, ma per il resto si stava veramente bene”.
Chiediamo a Tullio notizie sulla croce di ferro detta “della Pieve”, situata sulla sommità nord ovest del monte Tezio; ecco quanto ci racconta: “Mio zio Checco, che era nato nel 1872 ed è morto nel 1933, diceva che quando era ancora un bambino quella croce era stata rifatta in ferro, dopo la fine della guerra 1915 – 18, in sostituzione di quella precedente, in legno, di dimensioni più ridotte. Il nome “della Pieve” è derivato dal luogo dove fu costruita, appunto Pieve Petroia, ad opera dello zio Checco, di Baiocco e di altri di cui non ricordo i nomi. Da ragazzo, negli anni trenta, mi arrampicavo spesso su per il traliccio che era ancora scoperto; il rivestimento esterno in lamiera fu realizzato soltanto dopo l’ultima guerra mondiale”.
A questo punto, citato l’ultimo evento bellico, la memoria di Tullio torna alla caduta dei due aerei militari sul Monte Tezio: uno americano ed uno tedesco. “il primo fu quello tedesco, un aereo da trasporto caduto a pochi metri dalla croce della Pieve. Non si è mai saputo con esattezza quante furono le vittime, anche perché il comando tedesco inviò subito sul posto alcuni militari per il recupero delle salme. Quello americano, invece, era un bombardiere di ritorno da una missione sull’aereoporto di S. Egidio; cadde quasi sullo stesso punto del precedente ed uno dei motori, staccatosi dal resto dell’aereo, ruzzolò fino a Pieve Petroia, vicina alla casa di Ercolanelli. Un rappresentante del comando italiano venne subito a cercare gente disposta ad andare a recuperare i resti dei sei componenti l’equipaggio, dando istruzioni perché fossero seppelliti sul posto. Insieme ad altri amici resisi disponibili, portammo a termine questo pietoso incarico che in seguito ci costò una denuncia al comando americano perché qualcuno ci aveva accusato del tutto ingiustamente di esserci appropriati di alcuni effetti personali dei soldati morti. Mio zio Mimmo fu arrestato e io, Cosimino, Dolfino, Gino Pauselli, e Arcelli detto Buio, subimmo un processo a Padule, da parte del tribunale militare americano. Le salme furono riesumate e fu accertato che le accuse che ci erano state rivolte erano del tutto false poiché nulla era stato sottratto ai componenti l’equipaggio dell’aereo caduto. Così fummo assolti e addirittura il presidente del tribunale , un colonnello americano, si alzò al termine del processo ed andò a stringere la mano allo zio Mimmo, dicendogli di essersi reso conto di avere a che fare con dei galantuomini”.
Stimolati dal grande interesse che suscitano i ricordi di Tullio proviamo a chiedergli notizie sulla tomba etrusca detta “del faggeto” Ecco cosa ci dice: ” A Pantano la famiglia Fabbri, miei antenati, aveva una bottega da fabbro; fino dal 1822 cominciarono a fabbricare chiodi per scarpe, le cosidette “bullette”. Per questo ottennero un riconoscimento ufficiale consistente in un diploma, un brevetto da Cavaliere ed una medaglia d’oro. Per alimentare la forgia veniva usato carbone ricavato da piante di Erica di cui era ricca la zona collinare oltre il cimitero di Pantano, nei terreni di proprietà della famiglia Calderoni. Un giorno, mentre stavano preparando la piazzola dove accatastare i ceppi di legno da bruciare, improvvisamente si aprì una voragine nel terreno e uno dei fratelli finì in fondo a quella che poi risultò essere una tomba etrusca. Mio nonno Domenico uditi gli strilli corse in aiuto del figlio che con grande spavento risalì in superficie. Fu così che avvenne la scoperta della tomba che però era stata sicuramente già visitata in tempi passati in quanto all’interno fu trovata soltanto un’urna cineraria mancante del coperchio”.
A questo punto chiediamo a Tullio di parlarci del Monte Acuto e della chiesetta di Madonna della Costa. “All’incirca nel 1954 crollò il tetto di quella che era in passato costituiva un importante luogo di culto ed un punto di riferimento per la fede popolare. L’immagine della Madonna che era rimasta all’interno, fu successivamente recuperata per iniziativa dell’allora parroco di Pantano, Don Giuseppe, e di un gruppo di amici. In primo tempo fu portata nella chiesetta di S. Angelo, a Pian di Nese, dove subì due tentativi di furto sventati grazie alle porte blindate che io avevo installato. Allora fu deciso di portare l’immagine nella casa parrocchiale di Don Giuseppe, a Pantano. A questo punto, poiché i parroco di Montecorona ne aveva chiesto la restituzione, a deciderne le sorti fu chiamata una apposita commissione nominata dalla Curia perugina. Insieme a Don Giuseppe andammo a discutere la cosa in vescovato, io, Vito ed altre persone; Fu deciso che l’immagine fosse conservata presso la Curia, con l’intesa che ogni anno sarebbe stata ricondotta nel giorno della festa, alla chiesetta di S. Angelo”.
Vorremmo continuare, ma ci accorgiamo che si è fatto tardi; sono trascorse quasi due ore, piacevolissime, senza che ce ne rendessimo conto. Il modo che ha Tullio di rievocare i suoi ricordi ci ha immerso in un mondo ormai scomparso , quasi di fiaba, un mondo che racchiude le nostre origini: le nostre radici.
Grazie Tullio per averci permesso di scrutare nel diario della tua vita , arricchendo le nostre conoscenze e permettendoci di conservare e tramandare alle prossime generazioni un così prezioso bagaglio di storia di vita vissuta.
Un alloggio particolare...
L'Oasi alpina del prete albergatore
"Posso alloggiarla con un certo comfort” - Di Paolo e Tertulliano Marzani
“Se vuol fermarsi qui per stanotte, posso alloggiarla con un certo comfort” – mi diceva il parroco1 di Pieve2, su un viale di ghiaia che muore dinanzi alla canonica. Il sole era già calato, nella tiepida serata di primo giugno, e già nera contro l’estrema luminosità del cielo si profilava la grossa piramide di Monte Acuto, mentre l’immensa gobba di Monte Tezio il monte di Perugia che si erge tra la Valle del Tevere e la piana di Magione verso la quale digradano i suoi contrafforti collinari – Scoloriva rapidamente nell’azzurro cupissimo del vespro che avanzava a grandi passi dall’est. Un silenzio quasi claustrale – punteggiato da grida di bimbi in girotondo sulla vicina aia colonica – circondava la chiesa, il campanile, la rozza. croce eretta a ricordo di qualche missione, la casa del curato e quella dei contadini. La notte scendeva sulla “Pieve”, i pochi lumi accesi in basso sulla piana sembravano tanto lontani, quasi irraggiungibili. Quasi noi ci trovassimo fuori del mondo, come avviene in qualche sogno misterioso.
Ero capitato per caso quassù, nel pomeriggio, girovagando come ci succede per questa Umbria tanto piccola e tanto sconosciuta. La strada del Pantano, che porta ad Umbertide attraverso le colline del Tezio e la sella di Montecorona, oltre Cenerente si snoda in curve e falsipiani. Un bivio sulla destra, con una stradetta in salita verso il monte, aveva attirato la mia curiosità. Marcia bassa e via, finché, tra pini ed abeti, la strada muore sul biancheggiare di alcuni muri tra il fogliame.
Poche case e molte conifere: quota 500, paesaggio alpestre. Non lo si sarebbe pensato, a due passi da Perugia. Eppure Pieve di Monte Tezio è qui col suo volto da paesino montano, di quelli che si incontrano ad ogni pie’ sospinto sulle prealpi carniche. Intorno, qua e là, pezzi di “scavo” (frammenti di lapidi, tronconi di steli): così ho conosciuto il parroco, perché lui solo, mi hanno detto i contadini, sa qualcosa di questa specie di museo all’aperto.
Ed il parroco (uno di quelli coi fiocchi) mi ha detto tutto sui “suoi” cimeli, perché è stato lui a trovarli là ove, probabilmente, deve essere stata la sede di una necropoli forse etrusca: ed è stato lui ad allinearli anche sull’ingresso della canonica, che ha tutto l’aspetto di una di quelle piccole “hall” degli alberghetti o dei rifugi delle Alpi, con i suoi tavoli e le sue panche di rozzi tronchi d’albero opportunamente adattati. Un “rustico” accogliente e pieno di buon gusto.
Per quanto bello, l’ingresso della canonica (che ha tra l’altro la sua brava scaletta di legno che sparisce nel soffitto), mi era sembrato un po’ strano. Ma, dinanzi ad un bicchiere di quel vino frizzantino delle viti che crescono quasi sulla roccia, e dinanzi ad una fetta di torta col prosciutto, il discorso era caduto su altri argomenti. E’ stato fuori, nel silenzio della notte incombente, guardando muti la distesa buia della pianura, che l’idea dell’albergo di montagna prendeva forma nella mia mente, alla memoria visiva di quella che a prima vista avevo definito una piccola “hall” di montagna.
“Se vuol fermarsi qui, per stanotte, posso alloggiarla con un certo comfort: venga a vedere”. Rientrati al piano rialzato, il parroco mi ha mostrato alcune camerette di semplicità monastica, ma dotate di tutto quello che può occorrere al turista. L’idea è venuta un anno o due fa al buon pievano: la canonica è ampia, perché non attrezzarla per brevi soggiorni di chiunque, artista, studioso, o semplice turista, voglia venire qui a riposare, meditare od anche dormire, lontano dalla città che tuttavia è a due passi? E poiché il parroco è un uomo d’azione, fu presto fatto. Così, spesso, “Pieve di Monte Tezio” vede giungere qualcuno che può vivere due o tre o quattro giorni in solitudine, cibarsi alla campagnola, senza temere per il suo bilancio, dato che il conto non va oltre i limiti del conto delle vivande e della più ristretta percentuale per l’usura del materiale. Mi sono fermato. Il sonno quassù è veramente ristoratore, come il coniglio arrosto che una matura e dignitosa Perpetua, obbediente agli ordini, ti può girare allo spiedo. La stessa matura e dignitosa Perpetua, obbediente agli ordini, mi ha svegliato all’ora richiesta. Il disappunto per il brusco risveglio è svanito allo spettacolo del giorno nascente che inondava di polvere argentea i tetti e le cime dei pini, e dilagava sui vapori rugiadosi della pianura verde e marrone. Occorreva che dicessi ai perugini che hanno un’oasi alpina a due passi da Perugia e non lo sanno. E l’ho fatto prima di riprendere a malincuore la china verso l’asfalto, i semafori ed il cemento armato.
Resti peculiari...
Le neviere di Monte Tezio
Uno spaccato sul passato del Monte - Di Aldo Frittelli
In un avvallamento della superficie prativa di Monte Tezio, a quota 917 s.1.m., sono ubicati i resti di antiche neviere che, da circa un secolo in completo abbandono, si presentano oggi allo stato di rudere. Liberate dalla vegetazione spontanea dalla Associazione Monti del Tezio nel 2001, sono state consolidate dalla Comunità Montana nel 2005.
Genericamente le neviere erano grotte naturali o artificiali nelle quali durante l’inverno veniva introdotta e costipata la neve che, protetta da un cospicuo strato di paglia, si poteva utilizzare durante l’estate quando ancora non esistevano i frigoriferi. Il ghiaccio, tagliato in blocchi con un’ascia, veniva avvolto in sacchi di iuta e trasportato a valle a dorso di mulo per essere utilizzato in ospedale o dai ceti più abbienti. Scarsi e vaghi sono i ricordi tramandatici oralmente dagli anziani riguardo alle neviere di Monte Tezio; molto carenti anche le notizie storiche rinvenute fino ad oggi.
Una ricognizione presso l’Archivio di Stato di Perugia ha attestato numerose richieste di appalto da parte di privati, volte ad esercitare la vendita del ghiaccio, fin dall’anno 1669; il Comune di Perugia ne fissava anche le modalità di vendita ed il prezzo. Le ultime notizie certe rintracciate, relative al loro funzionamento, risalgono al 1864.
L’edificio, seminterrato, è da tempo privo di copertura, presenta una pianta circolare del diametro interno di 12 metri ed è definito da una muratura di pietrame dello spessore di 50 cm.. Quattro piloni addossati alla parete stessa, sono ubicati alle estremità di due diametri ortogonali; su di essi erano impostati due arconi intersecantisi in chiave, sui quali era adagiata la struttura lignea sostenente un tetto tradizionale costituito da pianelle, tegole e coppi.
Un racconto dalla terra
Terrazzamento della Parete Bellucci
Una collezione di storia e artigianato - Di Aldo Frittelli
Il sito è ubicato sul versante sud-ovest del monte, alla quota di circa 900 metri s.l.m. e presenta una planimetria pressoché fusiforme della lunghezza di circa 100 m. e una larghezza di circa 40, con asse maggiore orientato nord-ovest sud-est; il lato nord-est è limitato da un dirupo alto circa 10 m. che protegge l’area del terrazzamento dai freddi venti settentrionali.
La denominazione “Parete Bellucci” deriva da una epigrafe ivi murata nei primi decenni del Novecento a ricordo del paleontologo, etnografo e rettore dell’ Ateneo perugino vissuto a cavallo dei secoli XIX e XX. Le peculiarità del luogo sono rappresentate da una modesta grotta dall’andamento orizzontale, lunga alcuni metri, popolarmente detta “Grotta del diavolo” e soprattutto da alcune vestigia situate in prossimità del ciglio del pianoro, mai rilevate né studiate da alcuno.
Di tali ruderi, quello ubicato più a nord, definisce un ambiente a pianta quadrangolare di circa m. 5,50 di lato, limitato su tre lati dai resti di una muraglia a secco dello spessore di m. 1,70 realizzata con lastroni lapidei non lavorati; il lato a monte invece è definito da lastroni posti verticalmente. Il lato a valle di questa costruzione continua in direzione sud-ovest per una lunghezza di circa 15 m. in forma di rozzo muro di sostegno alto circa un metro.
Alla distanza di circa 12 m. da questo primo rudere emergono i resti di tre muri, pressoché paralleli realizzati con pietre semilavorate; la loro lunghezza si aggira intorno agli otto metri, la loro distanza è di circa 4 m. e lo spessore circa cm. 90. Tra le rovine di essi emerge un lastrone di cospicue dimensioni che presenta sullo spessore due misteriose scanalature.
Un terzo manufatto dista dai muri suddetti 5-6 metri e si presenta come una “vasca” interrata di forma rettangolare (dimensioni m. 3,50 x 2,70) definita da masselli lapidei squadrati. L’interno di essa è parzialmente occupato dalle sue stesse rovine, tra le quali si evidenzia un grosso concio con una faccia sagomata in forma di guscio e inciso su un’altra faccia da misteriosi rincassi quadrangolari.
All’esterno di questo manufatto sono sparse numerose pietre ben lavorate, una delle quali presenta scanalature analoghe a quelle intagliate sul monolite accennato in precedenza. Alcuni metri a monte del rudere ora descritto, seminascosto dalla vegetazione, è situato un breve tratto di muro in blocchi lapidei di accurata esecuzione. Tra la petraia che si estende per alcuni metri dal piede della Parete Bellucci è situata infine una pietra di medie dimensioni che presenta su una delle facce più grandi una misteriosa scanalatura intagliata a mò di canaletta; l’incisione, dal profilo quasi semicircolare, larga circa l0 cm. e profonda circa 3, percorre la lastra per l’intera lunghezza.
Racconti della Tradizione
Il Bisciaro
Estratto da “Castelli, fortezze e rocche dell’Umbria” di Daniele Amoni Edizioni Quattroemme
Secondo la tradizione popolare, nel maniero venivano raccolti i bisci, cioè i figli di padri ignoti e di madri conosciute, le quali, a loro volta venivano racchiuse per il disonore in una vicina villa chiamata Racchiusole. Forse esisteva una certa relazione tra Bisciaro, Racchiusole ed il vicino Palazzo dell’Inquisitore, dove si trovava una speciale magistratura. Altri storici affermano che il castello abbia preso il nome dal luogo particolarmente ricco di bisce. (Pantano – bisce … ndr). Con il nome di Solbicciaio è riportato nella carta di Ignazio Danti autore delle piante topografiche dello Stato della Chiesa e della città di Perugia pubblicate nel 1580. Intorno alla metà del XVI secolo vi abitavano nove famiglie. Appartenne al contado di Perugia e dipendeva dal quartiere di Porta Sant’Angelo.
Curiosità da Perugia
La Perugia della Bell'Epoca
Estratto da “Perugia della bell’epoca” di Uguccione Ranieri di Sorbello, Edizioni Volumnia, Perugia 1970.
Capitolo XV Anno 1864: Neve da monte Tezio
“Di tutto si occupa « La Gazzetta ». [...] Fa sapere che il conte Oddi Baglioni su Monte Tezio ha delle buche per la neve e che accetta prenotazioni da parte dei caffettieri. [...]".
Capitolo XXVIII Anno 1877: Alpinismo
“Altri sport più strenui si praticarono a Perugia stessa: per esempio l’alpinismo. Il 15 luglio una ventina di valorosi si radunarono in piazza Grimana alle ore 2 del mattino « tutti in costume più o meno alpino ». Giunse col treno della notte, finalmente il cavalier Corona, grande alpinista, venuto a tenere una conferenza a Perugia. Si parte a piedi che è ancora notte. Alle 4 si attacca la salita del Tezio. Si fa colazione in cima e chi aveva portato il mandolino, accompagna i canti. Alle 12,30 tutti sono di ritorno. Seduti nella Sala dei Notari insieme a molto altro pubblico ascoltano il Cavaliere che per quasi due ore disserta sulla « Storia dei Clubs Alpini ». Alle 6 gran pranzo all’albergo Casali. Il Tezio come montagna non è gran che, ma da Perugia, con ritorno, è una bella tirata per essere seguita da una conferenza e un banchetto! Al Cavalier Corona lode e fama per aver seminato da noi l’ansia delle altezze”
Capitolo XXX Anno 1879: L’Esposizione Umbra a Perugia – Il Congresso Alpino
Finalmente una « Esposizione » a Perugia !
[...]
L’occasione fu il dodicesimo Congresso Alpino Italiano che gli alpinisti dell’alta Italia decisero di tenere a Perugia alla fine di agosto allo scopo di spargere nel paese l’amore per le montagne. Anche questa di un congresso nazionale fu una novità che si svilupperà in vista dell’equidistanza di Perugia dalle altre regioni. [...]
L’orario della mostra era dalle 10 alle 16 – le ore più calde – ma le lamentele lo fecero estendere di due ore nel pomeriggio. Dopo i primi affollamenti parve vuotarsi, ma tornò animata quando giunsero a Perugia con consorti più di 60 alpinisti a inaugurare il loro Congresso nel teatro Pavone il 25 agosto. Aprì il Congresso il nostro Bellucci appassionato escursionista e arrampicatore e l’inesauribile Alinda B. B. recitò la poesia « Ai Monti! » appositamente commissionatale. Il marchese Belcredi congressista di Parma non volle essere da meno. Indirizzandosi a Perugia cantò:
« Bevo ai tuoi colli, ai tuoi fiumi d’argento
agli occhi dolci delle tue beltà
e come torna alle tue cime il vento
così l’anima mia ritornerà »
I congressisti più animosi si spinsero fino a Norcia per ascendere il Vettore. Il marchese Roccagiovine ne portò altri sul monte Cucco nella famosa grotta con corde e puleggie. I più sedentari si accontentarono del Subasio o di una gita al Trasimeno e a Montegualandro per veder il campo dove fummo suonati da Annibale.